Due serie tv Netflix fatte bene

È indubbiamente ancora presto per eleggere le migliori serie tv, l'anno è appena iniziato e sicuramente ci saranno tante altre uscite. Però già in questi primi due mesi del 2025 ho visto delle produzioni che mi sono sembrate ben fatte, e se di Netflix se ne parla sempre male, ogni tanto bisogna riconoscerne l'impegno. 


Cent'anni di Solitudine 
Prima Parte


L'11 Dicembre 2024 su Netflix è arrivato l'adattamento di uno dei romanzi più conosciuti di Gabriel García Márquez, che è a tutti gli effetti una intensa saga familiare lunga sette generazioni. Cent'anni di solitudine infatti ci fa conoscere i Buendía, a cominciare dai capostipiti José Arcadio e Úrsula, i quali, contro il volere dei genitori, si allontaneranno dalla terra natia e creeranno un loro villaggio chiamato Macondo. Qui metteranno radici e faranno nascere le future generazioni dei Buendía, però sembra che la loro dinastia sia stata segnata da un fato incerto, caratterizzato da amori e tradimenti, follia e forza, violenza e redenzione, ma anche dalla costante incapacità di non ripetere gli errori del passato.


Non credo di aver mai letto, specie per intero, l'opera di Gabriel García Márquez, eppure ho avuto l'impressione che questa serie Netflix, almeno nei primi 8 episodi fino ad ora disponibili, abbia saputo traslare bene in immagini tutta la vicenda dei Buendía. Nella mia trama sono stato piuttosto stringato sui fatti, perché si tratta appunto di una epopea familiare che è un costante flusso di avvenimenti, in cui le nuove generazioni si accavallano alle precedenti e in cui ne capita di ogni.
Si chiama realismo magico: a circostanze comuni, a volte anche ispirate anche a fatti realmente accaduti in Colombia e nell'America Latina del XIX secolo, si uniscono momenti magici, strani, soprannaturali.

Eppure la serie, anche dovendosi confrontare con queste stranezze, che a volte diventano eccessi, riesce ad essere credibile, ben studiata e chiara.


Cent'anni di Solitudine infatti non racconta proprio fra le storie più lineari che siano mai state scritte, anzi può diventare cavilloso quando si accumulano generazioni e personaggi dallo stesso nome ed eventi tutti connessi.
Fortunatamente siamo guidati da una voce narrante quasi onnisciente che ci chiarisce e ci anticipa cosa accadrà e soprattutto le sensazioni dei personaggi. 
Oltre ad una scrittura efficace, Cent'anni di solitudine può contare anche su una ricostruzione scenografica che incanta, ed anche la fotografia è molto curata, perché sembra ti trasporti proprio in un altro luogo e in un'altra epoca. Tutto questo contribuisce ad aggiungere quelle note di esoterismo affini al romanzo di Marquez, senza però far diventare la serie un fantasy scadente. Anche le musiche mi sono sembrate ottime, così come la scelta dei suoni in generale, e penso che la serie possa contare su un cast azzeccato e di talento.


Oltre che per il genere particolare, capisco però che 100 Years of Solitude può risultare un'opera un po' troppo ricca da affrontare, con troppi avvenimenti, troppe linee narrative, troppi personaggi, e che nel suo insieme sembri un po' monolitica e didascalica per via della costante progressione cronologica.
È come se non si uscisse mai dai binari dal racconto, come se ci fosse un senso di inevitabilità e ripetitività, che uniti al realismo magico rendono Cent'anni di solitudine non proprio adatta a tutti. Io stesso non ne ho fatto un binge watching ma mi sono preso il mio tempo e così l'ho apprezzata per questa sua costante vena poetica e appunto per la sua intensità.
I restanti otto episodi non hanno ancora una data ufficiale di uscita su Netflix, ma spero che li vedremo entro la fine dell'anno.


American Primeval
Prima stagione

Il 9 Gennaio su Netflix non è arrivata solo Ilary (che quando ne ho parlato sembra avessi invocato Belzebù) ma anche una serie tv decisamente più strutturata e curata e mi riferisco ad American Primeval.
Serie tv western-drammatica scritta da Mark L. Smith, già sceneggiatore di Revenant, American Primeval ci porta nel selvaggio west, nello Utah esattamente, a metà '800, quando gli Stati Uniti erano in una fase istituzionalmente ancora embrionale, e i territori erano zone complicate e conflittuali. Da un lato ci sono infatti gli indiani che reclamano giustamente le loro terre, dall'altro ferventi mormoni che credono di poter istituire un governo collaterale basato sulla fede, e poi c'è l'esercito ufficiale col ruolo di evitare che si formino altre forze che spadroneggiano a loro piacimento.

Seguiamo in particolare le vicende di Sara (Betty Gilpin), una donna in viaggio con il figlio Devin appena adolescente, per raggiungere il marito nell'immaginaria Crooks Springs. Non sarà un percorso semplice vista la natura difficile del territorio, e le lotte di potere interne, ma la donna sarà aiutata dal solitario Isaac (Taylor Kitsch).

Con American Primeval non abbiamo a che fare con qualcosa di molto originale, sia per la serialità in generale che per il genere western, però a me è sembrata una serie tv fatta bene. Infatti mi è parso che la storia, sebbene non guizzi di particolari colpi di scena, o ribaltamenti così innovativi, funzioni e che tutte le pedine in questo scacchiere sono ben gestite. Come vi dicevo, ci troviamo a seguire personaggi differenti, che in qualche modo si trovano collegati fra di loro senza mai intrecciarsi troppo.
Il sapore di una storia vera sullo sfondo, ovvero la Guerra dello Utah ed il massacro di Mountain Meadows, danno ulteriore fascino alla serie, ma è comunque godibile già di suo.

A me American Primeval ha ricordato un po' The English, miniserie con Emily Blunt e disponibile su Paramount +, per le tematiche, pur avendo uno stile parzialmente diverso e soprattutto riuscendo ad essere molto più dinamica, ritmata e con i giusti momenti di suspense. È poi una miniserie autoconclusiva e composta da soli 6 episodi che non sbrodolano in durata. 


Allo stesso tempo American Primeval è sicuramente adatta a chi invece il far-west lo apprezza, quello sporco, freddo, inospitale, fatto di violenza e senza delle regole scritte. Si ha la percezione di tensione, di paura, di inatteso, grazie anche ad una fotografia altrettanto fredda e desaturata, in coerenza con la vicenda che va a raccontare. Purtroppo, tocca ammetterlo, ogni tanto ci sono delle scene davvero troppo buie, il tipico approccio realista che adesso piace molto in fase di produzione, ma che è davvero fastidioso per lo spettatore. Ci sono anche momenti di violenza un po' splatter, più adatti a stomaci forti.

Il cast, in cui figura un altro volto noto come Shea Whigham, nei panni dell'esploratore americano realmente esistito Jim Bridger, è stato scelto bene e sono tutti bene impegnati in dei ruoli che hanno comunque una parabola ed una evoluzione. 
Così questa serie tv Netflix diventa un perfetto diversivo per chi come me non ama il genere western, ma non vuole fossilizzarsi sulle stesse storie e gli stessi contenuti.



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